Veneziane Sultane nel Harem, Istanbul, Turchia
Ragazze veneziane di nobili origini diventano sultane
Così mi ritrovai in camera sua a tenergli compagnia, seduta sulla poltrona che avevamo fatto venire dal salone, ed ero sicura che in paradiso la defunta Lady, vedendo le premure di cui lo circondavo, sorridesse di felicità. Per i giorni successivi Venezia smise di esistere o meglio aveva smesso di esistere per me dal momento che non camminavo più. Tuttavia continuavo a disegnare e gli facevo vedere i miei disegni, che non erano più gondole o archi a sesto acuto, ma bensì turbanti e caffettani.
Era stato lui a ispirarmi avendomi chiesto di raccontargli favole dall’oriente per fargli dimenticare il rosso della pittura veneziana, che, così mi disse, era stata la causa della sua frattura. La questione rimase in sospeso, ma in cuor mio mi dicevo che era stata una fortuna che a spezzarsi fosse stata una gamba e non il cuore. Infatti la causa vera, secondo me, era l’incredibile riservatezza con cui affrontava certe questioni e che di certo entrava in conflitto con la sua erudizione. Nella nebbia si può ballare quando ci si mostra cordiali con il mondo e non quando lo si guarda con sospetto.
“Mi racconti una favola”, mi diceva e io non me lo facevo ripetere due volte.
Così gli parlai della sultana Nûr Banû, il cui nome voleva dire «Signora Luce», e che era tutt’altro che fiabesca, essendo figlia del governatore veneziano di Corfù. Quando Khayr al-Din Barbarossa invase l’isola, nel 1537, lui la rapì e la inviò in dono al sultano.
Notai che aveva corrugato la fronte, ma prima che lui si domandasse come possibile che una veneziana fosse diventata sultana, aggiunsi che a molte altre ragazze veneziane di nobili origini era capitato di essere rapite dai pirati, a quell’epoca un vero e proprio flagello, e di finire rinchiuse nell’harem di Topkapi.
“Ma questo non vuol dire che fossero schiave del sultano. Si tratta di una leggenda”, conclusi.
“Ne è sicura?”, mi domandò con diffidenza.
“Certo”, risposi. «Lo affermano gli archivi della Serenissima”.
Subito dopo gli raccontai la storia di una veneziana che fu rapita dai pirati lungo le coste del Friuli e fu inviata nell’harem, ma poiché il sultano non le rivolse neppure un’occhiata, dopo nove anni fece ritorno a Venezia libera e carica di gioielli. Il marito però, che l’aveva creduta morta, nel frattempo si era risposato.
“E che cosa accadde?”, domandò incuriosito mentre agitava la gamba ingessata per sgranchirsi un po’.
“Non lo so», risposi stringendomi nelle spalle. «Le cronache ne riferiscono soltanto il rapimento. Chissà, forse si è risposata anche lei”.
Continuai a raccontare la storia di Nûr Banû, una donna bella e intelligente che scelse di convertirsi all’islamismo, apprese alla perfezione la lingua turca e l’etichetta della corte ottomana, imparò a suonare il liuto e a servire con eleganza il caffè allo scopo di conoscere il sultano, cosa che avvenne nel salotto della madre. Intanto facevo balenare nella mente di Sir Henry l’harem di Topkapi, che non aveva mai visitato, e gli feci vedere il chiosco del sultano Murat III, uno dei più belli del Serraglio, con le maioliche e la splendida fontana incastonata nel muro, da dove l’acqua sgorgava gorgogliante coprendo il brusìo delle nostre chiacchiere.
“I turchi di solito parlano sottovoce”, dissi, «mentre le odalische cinguettavano come usignoli».
“E della sultana che ne è stato?” domandò lui…
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