Il critico d’arte Bernard Berenson a Firenze, Italia
Vi siete mai domandati come mai agli inizi del Novecento siano giunte in America opere d’arte in quantità tale da creare le collezioni più ricche del mondo, i cui proprietari tuttavia possedevano nozioni assai scarse di storia dell’arte? Si tratta di un’epoca in cui, al contrario di oggi, era molto difficile stabilire la paternità delle opere d’arte. La scienza di allora, in altre parole, non offriva alcun metodo atto a confermare che, per esempio, una certa Madonna era stata dipinta da Filippo Lippi, dal momento che nel corso del primo rinascimento i pittori non erano soliti firmare le proprie opere.
Oggi invece tutto sembra scontato. I quadri raccolti nei musei sono esposti nelle migliori condizioni di luce, in ordine cronologico, con il nome dell’autore riportato nelle tabelle informative, e noi crediamo a tutto quello che vediamo. Perché altri hanno fatto questo lavoro per conto nostro. E quando il nome di un pittore non ci dice niente, facciamo spallucce e passiamo al successivo. Ma se gli esperti cambiassero idea e attribuissero a Botticelli il quadro di un autore sconosciuto (evento che non si può escludere) allora tutti ci soffermeremmo a guardarlo.
“Mi sbaglio, signora Moretti?”, domandai la mia amica fiorentina nel corso di una visita a sua casa a Fiesole.
“Certo che no. Tutti ci comportiamo come automi”, osservò lei.
Pur non condividendo del tutto il suo punto di vista, mi rendevo conto che ogni epoca ha le sue preferenze. Per esempio quando gli inglesi dell’età vittoriana si recavano in visita agli Uffizi, a Botticelli riservavano soltanto un’occhiata frettolosa. Invece si fermavano estasiati ad ammirarne il maestro, il Ghirlandaio, allora di gran moda. Ma chi fu a convincere gli americani a mettere al bando i propri timori e a mettersi a collezionare le opere dei pittori del primo rinascimento?
La risposta è Bernard Berenson. Una vera autorità in materia, un uomo la cui firma era una garanzia. Egli affermava che era la fede nel suo lavoro a fargli inviare i quadri migliori in America e che la sua soddisfazione maggiore era vederli arrivare insieme con gli artisti che li avevano dipinti. Grazie a lui sono state create le raccolte private più importanti del mondo, che noi oggi possiamo ammirare nei musei degli Stati Uniti.
“A quanto pare, tuttavia, in certi casi le sue attribuzioni erano fasulle”, mi interruppe la signora Moretti. “Ma questo era un modo per agevolare la vendita delle opere”.
“Non ci credo”, ribattei.
“E perché mai? Provi a pensare a quanto ammontava la sua percentuale quando certificava che, poniamo, l’Adorazione dei Magi era opera di Filippo Lippi. Lei stessa, del resto, ha affermato che nella sua villa I Tatti a Fiesole, fulcro dell’elite cosmopolita, conduceva l’esistenza di un principe rinascimentale. Mentre i suoi genitori erano emigranti di Boston. Non lo dimentichi”.
“Queste sono calunnie sparse a piene mani dai suoi detrattori, che lo vedevano accrescere la sua fama” replicai.
Era vero che i mercanti di Parigi e di Londra esercitavano pressioni su di lui affinché apponesse la sua firma, egli tuttavia opponeva una strenua resistenza. Di più, lamentava il fatto che il commercio di opere d’arte lo distoglieva dagli studi, benché lo considerasse un male necessario dal momento che era così che si guadagnava da vivere. Le accuse che gli lanciavano erano gravissime.
“Mia cara, era un uomo assai diffidente”, ripresi. “Soleva affermare che non esistevano attribuzioni sicure al cento per cento, benché questo contrariasse i mercanti d’arte. Le considerava una tappa intermedia più che un punto d’arrivo”.
In effetti a quell’epoca il traffico di opere d’arte non era uno scherzo. Per esempio accadeva che un quadro lasciasse Firenze, fosse trasferito a Parigi e infine in America per essere compreso nella raccolta di qualcuno; tuttavia, se si spargeva la voce che il quadro era stato attribuito all’artista sbagliato, faceva ritorno a Parigi via Londra. E se a Parigi l’attribuzione originaria veniva confermata, il quadro veniva acquistato da un altro collezionista. Il primo acquirente allora non esitava ad attraversare l’Atlantico nell’intento di strappare il quadro al secondo collezionista, anche a costo di pagarlo il triplo, e di riportarlo in America. In altre parole si trattava di vicende senza fine.
Ecco perché di Bernard Berenson, con la sua corporatura minuta e l’impeccabile pizzetto bianco, avevano bisogno tutti.
Il mio lungo soggiorno in Toscana è descritto nel libro: Un anno in Toscana