Anche i quadri viaggiano
Si, anche i quadri viaggiano e il percorso del loro viaggio è interessante, soprattutto se arrivano dove si trovano senza subire alcun danno pur passando attraverso mille peripezie. Alcuni sono sopravissuti alle guerre, alle calamità, ai saccheggi, alle gelosie e all’ indifferenza delle persone che li hanno ereditati e che non ne hanno capito il valore.
Una mattina piovosa ero al National Gallery di Londra e incuriosita guardavo il Ritratto dei coniugi Arnolfini, perché il giornale The Guardian lo ha incluso tra le “Venti opere d’arte da vedere prima di morire”! È stato dipinto da Jan van Eyck nel 1434 a Bruges, in Belgio, quando era il pittore ufficiale della Corte di Filippo il Buono, Gran Duca di Borgogna, e quello che mi ha impressionato è stato, che malgrado le sue piccole dimensioni (81,8 x 59,4cm), sia la stanza che i coniugi Arnolfini erano rappresentati con tale precisione, da sembrare fotografati, moltissimi dettagli così perfettamente ritratti da lasciare letteralmente estasiati. Forse questo intendeva il The Guardian? Non soltanto! Ciò che davvero ha stimolato la mia curiosità sono state le vicende di cui è stato protagonista questo celebre dipinto.
Ah, se un quadro potesse parlare…
All’inizio era ammirato in privato, dagli ospiti nella casa degli Arnolfini a Bruges, ma poiché loro non avevano figli, in seguito fu acquistato dall’ambasciatore nella corte di Borgogna, lo spagnolo Don Diego de Guevara, colto, raffinato, un cosmopolita dell’ epoca. Un po’ prima della sua morte, Don Diego lo regalò all’arciduchessa Margarita, che lo teneva appeso nei suoi appartamenti privati dove poteva ammirarlo in tranquillità, visto che i coniugi Arnolfini le ricordavano i giorni felici che aveva passato con suo marito, ormai defunto.
In seguito la sua collezione di quadri fiamminghi è passata alla nipote, Maria d’Ungheria, anche lei Reggente dei Paesi Bassi, una donna che amava molto cavalcare, ma era anche appassionata d’arte. Quando il fratello di Maria, Carlo V, decise di lasciare l’impero al figlio Filippo II, Carlo costrinse la sorella a seguirlo in Spagna. Dovendo viaggiare leggera, Maria era indecisa quali quadri portare con lei. Ma il Ritratto dei coniugi Arnolfini, furono scelti e partirono con lei. Lasciando le Fiandre, arrivarono in Spagna sopravvivendo al radicale cambiamento atmosferico e all’umidità del galeone che li aveva trasportati.
È vero che un quadro obbedisce senza potere protestare, dovendo seguire il volere di chi lo possiede, ma è forte e resistente. Dura nel tempo mentre noi siamo così fragili e temporanei.
In Spagna è rimasto nelle collezioni reali. Da Maria d’Ungheria è passato a Filippo II e dopo ai suoi discendenti, in seguito ai Borboni, sempre in competizione con le tele di Tiziano e di Rubens, di dimensioni enormi e con degli stili pittorici più alla moda, ma fortunatamente sempre catalogato negli inventari (così non è andato perso) e sempre ammirato dai visitatori che lo guardavo, non nei salotti ufficiali dei palazzi reali per il suo tema intimo, ma nei corridoi degli appartamenti meno pubblici.
E arriviamo a Napoleone e alla sua conquista iberica. In quel periodo turbolento e con l’ordine imperiale di trasferire tutte le più importanti opere d’arte a Parigi, nessuno ha toccato il Ritratto dei coniugi Arnolfini. Tranquilli rimasero appesi sui muri del palazzo reale di Madrid tutto il periodo napoleonico, fino a che Wellington arrivò in Spagna per liberarla dai francesi. Joseph, fratello di Bonaparte e re di Spagna, dovette lasciare la capitale e trasferirsi con le opere d’arte reali (le più piccole che si potevano trasportare) a Parigi. Ma vicino alla frontiera le truppe di Wellington lo circondarono e la battaglia di Vittoria rimase nella storia come la più frustrante sconfitta di Napoleone, dopo naturalmente quella della Russia. Joseph scappò salendo a cavallo ed in una densa nuvola di polvere lasciò dietro di sé tutti i bagagli con le collezioni. Queste furono saccheggiate dai soldati di Wellington e spartito il bottino tra di loro. Così i coniugi Arnolfini, intatti per fortuna, finirono nelle mani del colonnello James Hay.
E infine arrivarono a Londra. Sempre silenziosi.
James Hay non sapeva che cosa fare di loro. Tramite conoscenze, mandò il quadro al Reggente, Giorgio IV, un amante dell’arte, con un accordo libero, cioè lasciarlo per un po’ di tempo alla residenza reale, finché il sovrano non decidesse di acquistarlo. Ma l’arte primitiva fiamminga non era apprezzata ancora, meno che mai dal Reggente, i cui occhi non si fermavano ai coniugi appesi apposta vicino alla sua camera da letto nel Carlton House al Pall Mall, e così furono restituiti al colonnello Hay. Lui non era un intenditore, ma sentiva di possedere qualcosa che poteva essere prezioso.
E il tempo del riconoscimento di quel valore, infine, arrivò. Due passi ancora…
Ad apprezzare l’arte primitiva fiamminga furono i pre-raffaeliti e il loro ciclo. Alcuni studiosi furono incuriositi dai coniugi Arnolfini e andarono a Bruges per sapere chi erano e a fare delle ricerche su Jan van Eyck e così cominciarono a scrivere degli articoli. E fu allora che il quadro cominciò a suscitare l’interesse dei competenti. E come si dice… ecco il momento giusto: il National Gallery di Londra, che era stato fondato pochi anni prima, aveva bisogno di aumentare la sua sezione d’arte fiamminga con i primitivi fiamminghi, e quindi decise di acquistare il quadro nel febbraio del 1843. Il prezzo offerto fu di 600 ghinee, uguale a quello del ritratto del Doge Loredan di Bellini. Da allora il quadro rimane tranquillo, protetto e sempre silenzioso nella sua dimora ed è considerato la “stella” delle collezioni del National Gallery.
La sua storia, l’ho letta quando ancora incuriosita dalle parole del The Guardian, ho trovato nel bookshop della Galleria un libro scritto da Carola Hicks, intitolato “Girl in a Green Gown”, con sottotitolo: la storia e il mistero del ritratto Arnolfini.
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